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CULTURA 09-05-2001

CERVELLO, IL SEGRETO DELL'IDENTITÀ

Dubbi sull'annuncio di scienziati Usa sulle origini anatomiche della personalità

di UMBERTO GALIMBERTI

SEMBRA che la scienza riscuota i suoi maggiori successi di pubblico quando fa incursioni in terra filosofica, dicendo magari, come riferivano qualche mese fa i giornali, di aver trovato la localizzazione dell'anima, o come dicono oggi un gruppo di ricercatori dell'Università di San Francisco, di aver individuato nei lobi fronto-temporali l'area del cervello che controlla la nostra identità, il nostro profilo personale, lo stile della nostra vita.
"Noi pensiamo alla nostra identità - dicono i neurologi americani - come a qualcosa determinato da noi, mentre è un processo anatomico simile agli altri". Se le cose stanno così, allora dobbiamo dire che questo processo anatomico funziona malissimo, perché l'identità che dovrebbe controllare non è una cosa che esiste, ma una costruzione a cui ogni giorno ci dedichiamo, nel tentativo di rintracciare in noi una continuità che ci renda riconoscibili a noi stessi oltre che agli altri.

La psichiatria del primo Novecento con Blueler, Jung e i loro studi sulla schizofrenia, aveva ipotizzato che questa sindrome, che manifesta una dissociazione della personalità, non fosse, come fino allora si credeva, una «degenerazione» del nostro Io o, se si preferisce, della nostra identità, ma fosse la condizione in cui ciascuno di noi nasce e che si conserva latente anche dopo la costruzione del nostro Io. In altri termini noi nasciamo come una moltitudine di personalità di cui una diventa egemone, e quella noi chiamiamo nostra identità o più semplicemente Io.
La nascita dell'Io non sopprime le altre personalità latenti. Queste continuano ad avere una loro vita sotterranea e una di loro può sempre prendere il sopravvento sull'Io e governare a tratti il nostro modo di essere al mondo. Per farne esperienza non è necessario cadere in una crisi schizofrenica, è sufficiente drogarsi, o bere un bicchiere di troppo, per sentirci dire all'indomani da chi ci conosce: «Ieri sera non eri più tu», che tradotto significa: la tua identità è stata sommersa e al suo posto ne è subentrata un'altra che ti ha fatto dire cose che non sono da te e fare azioni che normalmente non fai.
Dunque l'identità è qualcosa di precario, di fragile, che necessita di un continuo soccorso, perché se dovessimo essere davvero «noi stessi», ci abbandoneremmo all'aggressività, alla sessualità, alla dolcezza, alla disperazione, non appena le circostanze ci invitano. Che cos'è allora l'identità? Una struttura di controllo che cerca ogni giorno di tenere a freno tutte le altre nostre latenti identità, in modo da consentire a noi di riconoscerci abbastanza identici a noi stessi, e agli altri di riscontrare la nostra identità, in modo da rendere possibile quei rapporti fiduciari su cui si fondano le relazioni sociali. Che cosa significa allora scoprire l'area del nostro cervello che controlla la nostra identità, il nostro Io, o, come lo definiscono gli americani il nostro «Self»? Significa scoprire l'area che ospita i freni inibitori. Niente di più e niente di meno di quello che la psichiatria del primo Novecento aveva ipotizzato e la psicoanalisi di Freud ampiamente descritto.
Capisco che gli scienziati non sono molto raffinati nell'uso delle parole filosofiche, ma dire che il nostro Io non è qualcosa determinato da noi bensì un processo anatomico del cervello significa negare quell'evidenza che è l'uso quotidiano della nostra libertà.
L'identità la perdo e la recupero ogni giorno sollecitato dalle circostanze della vita, e in questa capacità di perdere e di recuperare c'è tutto il gioco della mia libertà, che è poi un gioco di maschere che rende l'uomo adattabile alle mille situazioni diverse della vita. Qui cade la differenza tra l'uomo e l'animale che non è libero.
Spero che gli scienziati, nel loro furore deterministico, non ci tolgano la differenza che ancora sembra distinguere l'uomo dall'animale, una differenza che non è da ricercare tanto nelle regioni dello spirito, quanto nell'imprecisione della materia, nella scarsa codificazione istintuale dell'uomo che, invece di essere fissato in un'identità rigida.
Non per disperazione, infatti, ma per celebrare la libertà umana Nietzsche poteva dire: «Dammi ti prego una maschera, e un'altra maschera ancora». In questo modo Nietzsche definiva la nostra identità come disponibilità, più o meno sciolta, a indossare maschere, per essere più armonici con le situazioni più diversificate della vita.

La Repubblica 9/5/2001