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CULTURA 24-04-2001

LA POLITICA DEI SOGNI

la politica dei sogni
quando il leader promette l'impossibile

umberto galimberti

Ora che Silvio Berlusconi ha deciso di inviare a 21 milioni di famiglie italiane un libro celebrativo della sua figura, sarebbe bene che, non dico 21 milioni, ma almeno uno comprasse un libro del noto psicologo franco-canadese M.F.R. Kets De Vries che dirige a Fonteainebleau l'Insead, la più grossa scuola europea per la preparazione di manager e leader di organizzazioni aziendali e politiche. Il libro che ha per titolo Leader, giullari e impostori è stato scritto dieci anni fa, ma oggi è di un'attualità sorprendente e spero che l'editore Raffaello Cortina disponga ancora di un certo numero di copie che consentano, a chi ha quattro lire da spendere - perché, a differenza di Berlusconi, Raffaello Cortina non può regalare i libri - di farsi un'idea precisa sulla psicologia di un leader. Kets De Vries, che i leader li conosce bene perché li forma, scrive che quando il sorriso diventa una maschera e l'ottimismo una condotta, quando la comunicazione ha i toni della sicurezza propria di chi non ha paura, di chi non vede ombre, tanto meno dentro di sé, quando la complessità è semplificata fino all'indicazione di una sola via perché "non ci sono alternative", quando si è persuasi che ogni branco ha bisogno di un capo e le metafore tratte dal mondo animale diventano abituali, quando lo sguardo è sempre dall'alto, proiettato nel futuro perché il presente è sotto controllo, quando la dipendenza è ciò che soprattutto si esige dagli altri, e quando negli altri si vede solo il proprio riflesso, che è poi il riflesso di una luce senz'ombra, allora siamo in presenza di un leader alla cui formazione concorrono natura e cultura in questa dosata miscela. 1) LA RICERCA DEL POTERE. Per essere seria e non velleitaria, la ricerca del potere deve avere quel tanto di patologico che è tipico di tutte le funzioni compensatorie che risolvono fuori di noi i conflitti che non siamo riusciti a comporre dentro di noi: tali sono le esperienze infantili insoddisfacenti, dovute a scarsi riconoscimenti o a soverchianti richieste genitoriali che generano nell'individuo quel senso di inadeguatezza a cui il gregario si rassegna, mentre il leader tenta di superare attraverso un'azione dominata dal sacrificio e dal senso del dovere spinti all'eccesso. Di qui il bisogno di una rivincita e di una rivalsa pari alla rinuncia e allo sforzo a cui il leader si è sottoposto. A ciò si accompagna uno smisurato bisogno di attenzione e di affetto pari a quello non riscosso da bambino che induce il leader a quella necessità coatta a comparire e a farsi vedere per riscuotere consenso, sèguito e approvazione nel tentativo di compensare quella scarsa stima di sé che ogni leader profondamente avverte e continuamente rimuove per poter sopravvivere. L'impalcatura del potere e del successo sostituisce quella carenza di identità tipica di ogni leader che, fondamentalmente privo di un sé interiore, è costretto a cercare nel riconoscimento esterno il rimedio all'angoscia. Quando la ricerca del potere è promossa da una carenza di identità, alto è il grado di attaccamento di chi detiene il potere e ridottissime le possibilità di rinuncia. 2) SOGNO E BISOGNO. Mentre i comuni mortali hanno "progetti", i leader hanno "visioni", quella visione o sogno del mondo che, camminando al limite della realtà e della paranoia, saldano la leadership al carisma. Il sogno mortificato da piccolo e inseguito da grande si profila così alto nella scala dei valori, della difficoltà, della fedeltà e della sfida, da coinvolgere tutti i gregari che vogliono uscire dal colore opaco e grigio della quotidianità. È a questo punto, come vuole l'espressione di Gian Piero Quaglino nella prefazione all'edizione italiana al libro di De Vries, che il "sogno" diventa un "bi-sogno", un sogno a due che, quando non rasenta la "folie à deux", risponde a quella costante della natura umana per cui metà del mondo si aspetta che qualcuno dica cosa si deve fare e l'altra metà si aspetta di doverlo dire. Il leader, che appartiene a questa seconda metà, per fare del sogno un bi-sogno coinvolgente in cui tutti si ritrovano, è costretto a spingere i confini del sogno fino a quel punto in cui i fatti rasentano i desideri e la realtà la sua simulazione. Un passo ancora e il sogno si spezza, tutti aprono gli occhi, e alla delusione collettiva che sempre accompagna la fine di un sogno, quasi sempre si aggiunge la violenza distruttiva della leadership che così esprime la vendetta di un sogno tradito. Senza sogni la storia non cammina, ma anche nei sogni occorre una misura se si vuole evitare un risveglio da incubo. 3) IL GIULLARE. Gli antichi sovrani si difendevano dagli incubi introducendo a corte un giullare che aveva la possibilità di dire cose che in bocca a un filosofo sarebbero costate la testa. Ridendo e scherzando, il giullare ricordava al re il carattere transitorio del potere. Attraverso avvertimenti che, provenendo dalla follia, dalla stupidità e quindi dall'innocuità, erano lasciati correre, il giullare diventava il guardiano della realtà, impedendo al sovrano decisioni insensate. I leader di oggi non si circondano di giullari, e neppure rimpiazzano la loro assenza con una sufficiente dose di autoironia (vedi il caso Luttazzi). Al contrario i leader si prendono molto sul serio e scambiano l'ironia con la denigrazione a cui fanno seguire reazioni fuori misura generando loro, al posto del giullare, un incontenibile senso del ridicolo. 4) L'IMPOSTORE. Nel mondo tutti recitiamo una parte, basta vedere come ci presentiamo in pubblico e come in privato per convenire che siamo tutti degli impostori. Ma se tutti lo siamo, il leader è costretto ad esserlo perché, obbligato com'è a impersonare un ruolo, stenta a ritrovare le radici profonde del suo Io. Il posto lasciato vuoto dall'Io è occupato dai disturbi della sua identità mascherati dall'arte della rappresentazione dove, nell'imperturbabilità del volto e nella sequenza torrenziale delle sue parole, traspare quella desolante impersonalità che spesso la gente scambia per "forte personalità", perché non si accorge che sotto c'è solo una sconcertante assenza di qualsiasi moto d'anima. Costretto com'è a compensare con la stima attestatagli dagli altri l'assoluta autodisistima di sé, e con la dipendenza cieca e assoluta dagli altri l'assoluta mancanza di indipendenza, il leader, al pari del mendicante, è costretto a vivere di carità pubblica dove, invece delle monetine, raccoglie nella sua mano stesa quel riconoscimento collettivo senza il quale solo il suicidio potrebbe restituire quel po' di autenticità che ogni anima, prima di spegnersi, esige per sapere, almeno per un attimo, d'essere vissuta. 5) ALESSITIMIA. Ma i leader ce l'hanno l'anima? Sì, tutti abbiamo un'anima, chi piena, chi a brandelli. E a brandelli è l'anima del leader, la cui scarsa identità consente quel tanto di superficialità e mutevolezza che lo rende particolarmente adatto alle esigenze del mercato, contro la cui flessibilità un tratto stabile del carattere potrebbe entrare facilmente in conflitto. Il tratto tipico della spersonalizzazione e la capacità di adattamento alle regole del conformismo consentono al leader quell'insospettabile sottomissione ai desideri più bassi della gente, nonché l'idealizzazione sentimentale del potere al quale è propenso a sacrificare per intero i residui restanti della propria personalità. Nell'organizzazione, come istituzione totale, naufraga ogni traccia della sua identità personale, mentre la realtà assume quel volto distorto che non può non assumere quando è visualizzata da quell'unico punto di vista costituito dagli interessi dell'organizzazione. Ma che cos'è esattamente l'alessitimia? L'assoluta incapacità di trovare le parole per descrivere i propri sentimenti e, al di là del funzionamento impeccabile della sua loquela, la sterilità emotiva, la monotonia delle idee, e un grave impoverimento dell'immaginazione. Privi di capacità empatica, gli alessitimici, fra i quali si possono annoverare tutti i leader, presentano, al di là del recitato entusiasmo, tratti di indifferenza e freddo distacco che non segnalano tanto la padronanza della situazione, quanto gravi difetti di partecipazione emotiva e mancanza di qualità umana nelle relazioni e negli amori che per gli alessitimici sono così irrilevanti da essere frequentemente intercambiabili con lasciti di indifferenza, noia e frustrazione. Sanno infatti di essere amati per ciò che non sono, e sanno che il non-essere è il loro costitutivo appena compensato da un superadattamento alla realtà esterna che manda in corto circuito il mondo dell'immaginario e i residui di sentimento che faticano a crescere nelle loro anime secche. Interrogati in proposito, forniscono risposte rigide e prive di emozioni, quando addirittura non ricorrono alla descrizione di avvenimenti esterni per loro più familiari di quelli interni. Individuata l'alessitimia, le organizzazioni, scrive Kets De Vries, promuovono chi ne è affetto a posizioni di comando, la povertà della loro realtà interiore eviterà confusioni sulle decisioni da prendere in quella esterna, l'unica che interessa all'organizzazione che, tra i vari soggetti, predilige quelli de-psicologizzati, dove povertà e squallore emotivo vengono compensati dal luccichio del potere e dal riconoscimento che ne deriva. Che sia questa la vera ragione per cui i candidati della Casa delle libertà non devono apparire con il loro volto?

La Repubblica 24/4/2001