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CULTURA 28-05-2001

QUELLA FOTO RUBATA AL CHE

di IGNACIO PACO TAIBO II

HO, con alcune fotografie, un rapporto d'amore molto particolare. Mi piace narrarle, raccontarle. C'è una mezza dozzina di foto che racconto a più riprese nel corso degli anni, e ogni tanto qualcuno scopre la foto che gli ho raccontato e mi guarda con un misto di rimprovero e di sospetto.
Dire che ci sono foto che valgono più di mille parole è una frase facile, ma io credo, piuttosto, che vi siano foto che meritano mille buone parole. Alcune in particolare, a forza di raccontarle, sono rimaste nella mia memoria in versioni diverse. Sono fotografie che adoro, senza le quali non potrei amare il secolo XX come lo amo, senza le quali la fiducia negli esseri umani che mi sostiene giorno per giorno si dissolverebbe negli acidi al vetriolo della quotidianità.

Sono una foto di CartierBresson a Parigi, un paio di foto di Robert Capa a Barcellona, una foto del mio amico Javier Bauluz in Ruanda 50 anni dopo e una foto de L'Avana nel ‘59. Quest'ultima mostra un guajiro, un contadino cubano, con un cappello di paglia sfilacciato, che ha come coccarda una bandiera cubana, arrampicato in cima ad un enorme, enorme, gigantesco lampione. Sotto di lui si raccoglie una folla, ma il fotografo lo guarda di fronte, anche se da lontano. Credo di ricordare che quell'uomo ha i baffi, la camicia aperta, che lascia intravedere la canottiera, e sta fumando. Nella memoria, è un vecchio. E nessuno potrà mai spiegarmi razionalmente come è salito e si è seduto in cima a quel palo.
La foto riguarda la rivoluzione in fermento e l'uomo che, serenamente, fumando in cima al lampione, la fa sua. Dentro e fuori. Quando la Alliance Française organizzò in Messico una mostra fotografica del cubano Alberto Korda, scomparso l'altro ieri, mi chiesero di presentarlo in pubblico. Pensando che quella foto che ricordavo dell'uomo sul fanale fosse sua, accettai. Quella foto: la foto.
Volevo inoltre contribuire a sciogliere un malinteso. Perché Korda era molto di più della foto del Che riprodotta milioni di volte in tutto il mondo. Autore della fotografia che è stata probabilmente riprodotta più volte nella storia dell'umanità, Alberto Diaz, Korda (pseudonimo adottato in gioventù in onore ai cineasti ungheresi), è ad essa legato indissolubilmente nel bene e nel male. Quest'altra storia è stata raccontata molte volte e Korda stesso l'ha ripetuta in numerose interviste: 1960, quattro marzo, mentre Ernesto Guevara si dirige verso il Banco Nacional de Cuba, che casualmente presidia, avviene l'esplosione del La Coubre, una nave francese con un carico di 70 tonnellate di armi belghe. Il Che, nell'udire la terribile denotazione, devia verso il molo dell'Arsenale. È una tremenda sciagura, ci sono 75 morti e circa 200 feriti. Collabora nelle opere di soccorso. Il dubbio pervade tutti, incidente o sabotaggio? Il fotografo Gilberto Ante, di «Verde Olivo», lo trova mentre salva i feriti, ma il Che, infuriato, gli proibisce di fare fotografie. Gli sembra un'impudicizia essere oggetto di curiosità in un incidente.
Il giorno dopo, si celebra il funerale delle vittime. A un isolato di distanza dal cimitero di Colòn, nella strada 23, si innalza una tribuna coperta con una bandiera cubana listata a lutto. Gli animi sono esaltati. Da quella tribuna, Fidel pronuncerà per la prima volta la consegna «Patria o Muerte». Il fotografo Alberto Korda, del giornale «Revoluciòn», va scorrendo con la lente da 90 millimetri della sua Leica i personaggi della tribuna e si trova al secondo passaggio il Che che avanza su uno dei lati. Il gesto dell'argentino lo sorprende e scatta due volte. «Trovarmelo nell'inquadratura della macchina fotografica, con quell'espressione, mi fa quasi fare un sobbalzo. Intuitivamente schiaccio l'otturatore». Alberto Granado avrebbe detto a Korda, poco dopo, che quel giorno il Che aveva una faccia che se vedeva uno yankee se lo mangiava vivo; ma non è questo ciò che si mostra nella foto.
Nel negativo appare un uomo non identificato, sul lato destro della
foto, e le foglie di una palma a sinistra; abilmente, Korda sopprime gli elementi che distraggono e si concentra sul volto, un'immagine molto particolare, il volto teso, il sopracciglio sinistro lievemente alzato, il basco con la stella, il giaccone di capretto stretto al collo, il vento che gli agita i capelli. Korda sa di avere una grande fotografia. Stranamente, il redattore fotografico di «Revoluciòn» non sceglierà quella foto ma altre e la fotografia del Che non sarà pubblicata sui giornali. Anni dopo, l'editore italiano Giangiacomo Feltrinelli vedrà la foto appesa a una parete della casa di Korda e gliene chiederà una copia. Korda gliela regala. Alla morte del Che, Feltrinelli decide di farne un poster. Decine di migliaia di copie e poi milioni di esemplari si diffondono in tutto il mondo. È l'immagine più conosciuta del Che, quella simbolica, che inonderà muri, copertine di libri, riviste, coperte, cartelloni, tshirt. Quella che affronterà la foto distribuita dai militari boliviani del Che morto sul tavolo dell'ospedale di Malta in un duello simbolico e non per questo meno potente.
Ma Alberto Diaz è molto di più di quella foto. A trent'anni, è un grande fotografo di moda che ha intrapreso questa carriera perché voleva fotografare la sua fidanzata Yolanda con una macchinetta Kodak quasi d'antiquariato. È brillante, espressivo, potente quanto Avedon e improvvisamente si trova davanti una rivoluzione e si trasforma in fotoreporter. Paradossalmente, è nella velocità della fotografia giornalistica, nelle condizioni professionalmente difficili di una rivoluzione, sotto la pressione di un'informazione immediata, che una generazione di brillanti fotografi matura, e stranamente lo fa intorno al quotidiano «Revoluciòn», organo del 26 Luglio, diretto a quell'epoca da Carlos Franqui. Sono molto lontani dai rigidi modelli di stampa della burocrazia socialista, molto lontani dal funzionalismo delle agenzie statunitensi, molto vicini da un punto di vista politico ed estetico all'esperimento della Magnum nel ventennio precedente.
Stranamente, alcuni anni dopo, avrebbero fatto l'immagine e la storia della fase più duramente romantica della rivoluzione cubana. E quando un giornalista gli chiederà se erano consapevoli che in qualche modo stavano creando l'iconografia, i simboli mondiali del riconoscimento emotivo della rivoluzione, Korda e i suoi colleghi risponderanno di no, che non è così, che non è vero niente, che stavano semplicemente raccontando una storia. Inevitabilmente la rivoluzione si mostra anche come festa e Korda registra il «Cristo rumbero», Camilo Cienfuegos, che entra con i suoi cavalieri armati a L'Avana, in mezzo al giubilo e alla baldoria. Il realismo rumbero e festaiolo come contrapposto alle simulazioni dell'iperrealismo o allo scenario fraudolento e facilone del realismo socialista compresi i ritocchi. Le foto di Korda che colgono quello spirito sono molte: la rivoluzione nel baseball e il Che senza canottiera. Dobbiamo in gran parte a questa generazione di fotografi la desacralizzazione dell'idea della rivoluzione. Ad essi e al Che.
Torno alla mia foto preferita, all'uomo su quell'enorme lampione. È vero, è di Korda, l'ha intitolata «Il don Chisciotte del lampione», quel guajiro in mezzo alla folla, molti metri al di sopra di essa, seduto in alto. È più giovane di quel che dicevo. Il cappello di paglia non è sfilacciato. Come è arrivato lassù? Come lo scoprì Korda? Da dove lo ritrasse? In America Latina, la rivoluzione ha una componente kafkiana, il realismo kafkiano abita con noi. Senza di essa, moriremmo di noia e di serietà. E nella foto questo si concentra. Spiega tutto: la rivoluzione come il duplice spazio del noi e dell'io. Dove vado? Che c'entro con tutto questo? È mia e me la gioco.
Quando Korda, barbuto, molto cubano, ascoltò in un salone dell'Alliance Française, la mia versione dei fatti, mi prese per mano e mi tirò per andare insieme verso la mostra. Davanti alla foto del don Chisciotte del lampione ci vennero le lacrime agli occhi, ci abbracciammo.
Cazzo, come la raccontano bene gli scrittori.
La raccontano meglio i fotografi.
[traduzione di Luis E. Moriones]

La Repubblica 27/5/2001