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POLITICA 29-05-2001

BERLUSCONI PIÙ CAUTO SU PENSIONI E SINDACATI

giorgio bocca

La cautela con cui si muove Silvio Berlusconi dopo il successo elettorale si spiega forse con la presa di coscienza che governare in un tempo di mondialismo economico senza un governo del mondo è impresa superiore anche al suo ottimismo straripante. C'è chi vede nel personaggio e nella sua azione politica una riedizione di quel comunismo che tanto esecra. La sua ideologia neoliberista non è poi così dissimile da quella comunista marxista, poiché anche essa affida la salvezza del mondo a un sistema economico che, da solo, dovrebbe risolvere tutti i nodi e le contraddizioni umane.
«I manager del neoliberismo», osserva il sociologo Ulrich Beck, «invece che distribuire volantini alle porte delle fabbriche annunciano i loro dogmi con i media, danno per indiscutibile che la salvezza del mondo dipende dal Mercato». Una conferma delle inquietudini del Cavaliere sembra venire dalla sua campagna elettorale in cui ha accuratamente ignorato l'altra faccia del mondialismo, la faccia sociale. Molti interventi sulle strade, sui valichi, sulle bretelle, sulle tasse, sui computer, insomma su tutto ciò che è economico, e quasi niente sulle garanzie del lavoro, le solidarietà, le pensioni poco compatibili con le leggi del profitto.
Il neoliberismo afferma che è finita l'epoca dello stato sociale, aperta nel Novecento dai movimenti dei lavoratori e dalle leggi sociali di Bismarck. E che la nuova era del mercato e del profitto è ormai dominante, come scatenata da un virus che ha colpito tutto e tutti, partiti e istituzioni, modelli di vita e di cultura. Una rivoluzione altamente politica, contraria ma eguale alla comunista, che si nasconde dietro l'antipolitica. Vedi il Cavaliere che invita D'Alema ad andare a lavorare, mentre fa il suo stesso lavoro.
In questo contesto, il personalismo della recente campagna elettorale risulta piuttosto anacronistico, perché attribuire a due persone la catastrofe o la salvezza nostre prossime venture è stata una esagerazione o una voglia collettiva di voltar la testa dall'altra parte del reale e dell'attuale.
L'utopia comunista trovava una ragion d'essere nella economia del suo tempo, nella convinzione fordista che una superproduzione industriale avrebbe risolto anche i problemi sociali. L'utopia neoliberista muove invece fin dall'inizio fra profonde contraddizioni. A cominciare dal suo mondialismo molto differente dalla promessa cornucopia universale. Per cominciare è un mondialismo fortemente sbilanciato a favore dei paesi ricchi. L'export import dei grandi paesi europei è ancora al settanta per cento interno ai paesi della Ue e per il sette degli Stati Uniti. E il restante scambio con i paesi poveri è ineguale: manufatti e tecniche contro materie prime, scambio in cui i paesi poveri vendono ciò che possono strappare a un ambiente che è loro ma anche del mondo petrolio, gas, minerali, foreste, fiumi, mari e per farlo conservano regimi autoritari.
Dall'una come dall'altra parte, il virus della nuova era antidemocratica produce effetti analoghi, fra i ricchi come fra i poveri, affiorano le insofferenze per la democrazia i diritti civili, i sindacati, il sistema pensionistico che va estirpato come qualcosa di estraneo e di contrario al sistema del profitto, qualcosa che sta fuori dall'egoismo e dal conto profitti e perdite.
Nell'epoca degli stati sociali che il neoliberismo vuole distruggere, gli uomini della economia si resero conto che senza un minimo di solidarietà non sarebbe sopravvissuta una società civile. Oggi i seguaci dei Bush o della Thatcher sembrano convinti che la società non esiste, che esiste solo il mercato. E, affidandosi al potere anarcoide di un mondialismo senza governo mondiale, la nuova ideologia integralista sta producendo in larga scala i suoi nemici in tutte le classi, anche in quella dei manager: i colletti bianchi, per cominciare, che una concorrenza spietata sta cacciando ancor giovani dai loro posti di lavoro, i "net slaves" o schiavi della Rete che si aggiungono alle masse dei lavori servili, e in tutta la cultura che, nata e cresciuta nel rispetto delle qualità, è ora emarginata dalla dilagante mercificazione che rende irriconoscibili informazione, spettacolo editoria, arti liberali.
Certo, anche la repressione può funzionare con i mezzi strapotenti che ha a sua disposizione; certo, anche la nuova umanità può essere ridotta a omologarsi sotto l'effetto delle nuove droghe. Ma quale futuro può avere una società in cui milioni di persone non si riconoscono più in ciò che leggono, guardano, ascoltano, assieme agli altri milioni che ripetono luoghi comuni e comuni volgarità?
Il Cavaliere post elezioni si muove con cautela. Forse si sta rendendo conto che governare in un mondo senza governo dove tutto informaticamente si tiene ma tutto resta caotico è una impresa terribile, nonostante la presenza dei Buttiglione e dei Casini.

La Repubblica 29/5/2001