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POLITICA 29-05-2001

LA LEZIONE DEI SINDACI NELL'ITALIA DEL CAVALIERE

di EZIO MAURO

LA prima posta in gioco nel voto amministrativo di domenica era il governo delle città, con l'elezione del sindaco nelle mani dei cittadini, chiamati dovunque a scegliere tra il centrodestra e il centrosinistra: l'Ulivo ha vinto, conquistando con i municipi di Roma, Torino e Napoli le tre capitali simboliche di queste elezioni. La seconda posta in gioco, l'aveva fissata imprudentemente - ma pubblicamente - Gianfranco Fini, leader di Alleanza Nazionale e prossimo vicepresidente del Consiglio, nei comizi di chiusura della campagna elettorale venerdì sera: "Conquistando il Campidoglio la destra riuscirà ad azzerare completamente la sinistra italiana". Il disegno è fallito, la destra ha perso un'altra volta la battaglia del Campidoglio, e soprattutto nell'Italia di Fini e Berlusconi la sinistra non è "azzerata". Tutt'altro.
Comincia dunque a farsi chiara la mappa italiana del doppio voto di maggio. Chi parla di rivincita, dopo la vittoria dell'Ulivo nei municipi, non ha capito niente. Ma con ogni evidenza, dopo la vittoria la destra italiana cercava domenica lo sfondamento, sul modello delle elezioni europee che seguirono il voto del 1994, consolidando il "miracolo" berlusconiano.
Lo sfondamento non c'è stato, e soprattutto si è chiarito che non è possibile, perché l'Italia non è di destra. C'è una buona metà del Paese che rifiuta il modello berlusconiano, non accetta di andare sotto padrone, si preoccupa di costruire un sistema bilanciato dei poteri e dunque non si converte a quel modello populista-plebiscitario che per insediarsi definitivamente doveva realizzare un passaggio-chiave, ben chiaro a Fini: distruggere dalle fondamenta la sinistra italiana.

LA SINISTRA - o meglio il centrosinistra, nell'alleanza ormai consolidata tra il mondo cattolico-democratico e il mondo ex comunista ed ex socialista - è invece il perno e il cuore dell'altra Italia, di un diverso modello di Paese, di un progetto di crescita e sviluppo alternativo a quello del Cavaliere che ha vinto le elezioni. Un'Italia di minoranza, ha detto il 13 maggio; e tuttavia viva e vitale, capace di convincere e qualche volta persino di vincere, ha suggerito il voto di domenica scorsa. All'Ulivo, che raccoglie queste due anime piegate ma non distrutte dalla vittoria berlusconiana, spetta ora il compito dell'opposizione e della ricostruzione. Non si può parlare di rivincita proprio perché Berlusconi aveva liquidato quindici giorni fa la grande questione del governo nazionale, conquistando legittimamente la maggioranza delle due Camere, e insieme il diritto ad essere prescelto dal presidente Ciampi come premier. Ma avevamo avvertito subito che quel voto era una vittoria (aggiungendo che in democrazia questo è ciò che conta, e che dovrebbe bastare) non il plebiscito che il moderno populista cercava per dispiegare la sua "rivoluzione". Oggi la scelta popolare a favore dei sindaci ulivisti, con la netta "correzione" politica che comporta, conferma quella lettura. E aggiunge qualche elemento di chiarezza in più. Intanto quella metà del Paese che non accetta di diventare berlusconiana è forse già oggi la maggioranza nascosta, e probabilmente lo era anche il 13 maggio. Il vero capolavoro del Cavaliere è la costruzione di un'alleanza elettorale, un vero e proprio "cartello" di forze tra loro diverse, distinte e in qualche caso divaricate, capace di ridurre al minimo la dispersione dei voti, massimizzando i consensi attorno alla "Casa delle libertà": dentro quella casa, è avvenuto un secondo capolavoro nascosto, e cioè un rito di cannibalismo interno, con il leader che invece di crescere insieme con gli alleati, facendo il pieno, li ha divorati pezzo per pezzo, facendo il vuoto a suo esclusivo vantaggio. Questa strategia di puro "cartello" ha bisogno del trascinamento diretto del leader, che è il vero collante elettorale, simbolo e ragione sociale dell'alleanza, tanto che quando non c'è - come nel caso dei sindaci - la destra perde. Ma soprattutto, il "cartello" elettorale va bene per vincere le elezioni, ma rischia di non reggere alla prova di quello strano elemento che è la politica. Infatti dal giorno della vittoria Berlusconi si è logorato in un mercato interno delle poltrone, degli assetti e degli equilibri degno della migliore stagione democristiana, mentre la bulimia leaderistica del Cavaliere sta producendo i suoi primi effetti nel nervosismo degli alleati portati sì al governo, ma vampirizzati, dissanguati e ridotti al ruolo di fantasmi politici da attrazione turistica. Tutti, salvo il Cavaliere, hanno perduto peso, autorità e spazio, qualcuno ha perso anche il partito, o quasi, molti stanno perdendo la pazienza. Tutti pongono veti su tutto. Tutti infine chiedono ad alta voce visibilità, scambiandola per un surrogato della politica perduta, fingendo di ignorare che si tratterà comunque di visibilità delegata, di luce riflessa (come accade per tutte le stelle morte), di spazio politico octroyè, non vitale né autonomo, dunque senza futuro. Fino a giungere al paradosso politico estremo di Umberto Bossi che si rivolge al Capo dello Stato chiedendo addirittura il rinvio della convocazione delle Camere chiamate a consacrare Berlusconi premier, denunciando per brogli quelle stesse elezioni che hanno consegnato la vittoria al Cavaliere: che è pur sempre il suo leader, anche se non si capisce più se per la Lega è legittimo o illegittimo. L'Ulivo, che ha più tempo per riflettere perché non deve pensare a formare un governo, deve partire da qui: o meglio, come spiega a Repubblica Giuliano Amato, deve ricominciare da tre, dai tre sindaci delle grandi città e dalla lezione della loro vittoria. Intanto i Ds non sono morti se nel gran parlare di "comunismo" del Cavaliere hanno vinto con un loro uomo a Torino e hanno portato il loro segretario in Campidoglio, con l'opposizione di tutte le destre, dei preti offesi (chissà perché) dal Gay Pride, dei padroni che nell'interregno hanno dato più di una mano a Berlusconi. E i moderati di centrosinistra (che nelle profezie della destra sembravano destinati a sparire, risucchiati nel vertice del grande centro berlusconiano) scoprono oggi di contare più nell'Ulivo che nel Polo, con Rutelli alla guida della coalizione e con la Iervolino eletta sindaco di Napoli a danno di un funzionario di Publitalia, incarnazione suprema della modernità berlusconiana, tuttavia rifiutata dagli elettori. Insomma, le famose due gambe dell'Ulivo possono addirittura camminare, persino nell'età berlusconiana dell'Italia. E intanto il risultato del 13 maggio - in questo non corretto dal voto per i sindaci - fa sì che i sette leader di partito del centrosinistra siano poco più di sette nani. Questo fa scomparire ogni pretesa egemonica, ogni sofferenza gregaria, salvo che nelle fobie degli irriducibili. E dovrebbe convincere tutti che se contano le identità culturali, le radici, le diverse storie, non contano più nulla le singole pretese dei piccoli leader. Interessa soltanto l'orizzonte comune, che è l'Ulivo, cioè il centrosinistra, vale a dire quella cultura riformista che è il denominatore comune del progressismo europeo di diverso segno, e il marchio di governo dei ministeri guidati da Prodi, D'Alema e Amato. In questi giorni in cui si annunciano rese dei conti, scelte di segretari, definizioni di strategie, c'è un messaggio semplice e chiaro da mandare ai leader pro tempore dei partiti italiani di centrosinistra: verranno giudicati tutti, capi uscenti e capi subentranti, dalla capacità di subordinarsi a quello che un grande vecchio della sinistra come Luigi Pintor ha chiamato il moderno "spirito del Cln", e che noi definiamo un orizzonte comune di centrosinistra. Per i vecchi riti non c'è più spazio, come per i veti e i dispetti di una nomenclatura autoreferenziale, attirata dalle lotte intestine di potere e incapace di costruire (come ha fatto Berlusconi) una vera strategia delle alleanze, utile e indispensabile per trasformare in maggioranza politica e parlamentare quel consenso diffuso ma disperso che esiste nella parte non berlusconiana del Paese. Dentro quell'orizzonte comune della sinistra e del centro riformista, c'è a mio parere anche Rifondazione. Per primi, anni fa, abbiamo parlato delle "due sinistre" che si confrontano in Italia. Ma perché queste due sinistre devono confliggere, e non possono trovare un perno comune com'è accaduto in Francia, creando insieme un progetto di governo stabile e moderno, occidentale e riformista, certamente "plurale", ma capace di opporsi alla destra e competere per la conquista della maggioranza? Questo significa, in concreto, il doppio compito dell'opposizione e della ricostruzione, che tocca all'Ulivo. Tra i vecchi capi, chiunque pensi invece a scatenare una guerra dei poveri tra i Ds e la Margherita farebbe bene a fare un passo indietro, lasciando libero il campo. La stagione titanica dei grandi dispetti politici e delle piccole viltà quotidiane è finita con la vittoria di Berlusconi, sua logica conseguenza. Ci sono oggi a sinistra due poli che possono crescere senza soffocarsi a vicenda, e c'è bisogno di entrambi, per costruire una valida alternativa alla destra, nell'interesse del Paese. I valori comuni sono quelli che governano da sinistra le grandi democrazie europee, la libertà insieme con l'equità, la modernizzazione con la liberazione. Bisogna dire, finalmente, che questi valori fanno parte della storia migliore della sinistra italiana e del cattolicesimo democratico, e per questo non sono rimasti travolti sotto le macerie del muro di Berlino, insieme con il comunismo. Da qui, dalle ragioni intatte e moderne della sinistra riformista, si può ripartire. Anche perché di quelle ragioni e di quei valori ci sarà bisogno presto, nell'Italia berlusconiana.

La Repubblica 29/5/2001