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POLITICA 19-06-2001

UN DISCORSO DI MODERATA IMPAZIENZA

da l'Unità del 19/06/2001

di Furio Colombo


La voce è pacata, il tono è cortese. Cortese alla maniera fredda di qualcuno che usa la cortesia per far pesare l’autorità. La parola rivelatrice che ritrovate spesso negli interventi pubblici di Berlusconi, è «inderogabilmente». La usa per dire che potete fare quello che volete, ma lui andrà per la sua strada. La frase funziona anche al contrario. Lui starà al gioco ma per ragioni sue e con una legittimità che lo autorizza comunque a sentirsi sopra le regole.
Ecco il punto chiave del discorso: «La mia storia e la mia coscienza non autorizzano nessuno a sospettare nelle mie azioni fini diversi dal bene comune». Questa frase viene detta subito dopo l’annuncio che una legge per risolvere il conflitto d’interessi sarà presentata prima della pausa estiva. La personalizzazione che attraversa tutto il discorso, quel porsi di Berlusconi come unico protagonista, unico responsabile, unico referente e giudice della sua - e, adesso - della nostra storia, ha una chiave psicologica che ormai conosciamo. Ma ne ha anche una istituzionale. Presenta qualcuno che interpreta la funzione di primo ministro come personale e presidenziale. E concepisce la responsabilità pubblica come una sorta di autocertificazione. Bassanini non aveva mai pensato di spingere così avanti il senso della sua famosa legge. Il personalismo è netto quando Berlusconi dice: diciotto milioni di italiani sapevano del mio conflitto di interessi e mi hanno votato. La frase rivela in modo chiaro una visione della vita che non passa per la rete delle verifiche e delle regole, ma unisce direttamente il leader al popolo, senza altro filtro che il gradimento. S’intende che neppure il presidenzialismo americano, la forma più piena e più estrema di potere democratico, prevede l’acclamazione come percorso verso la più alta funzione politica.
La politica è tutta vincoli e «check points» e regole. Ma questo discorso, come tutti gli interventi importanti di Berlusconi, ci dice che non è la politica il territorio che lui sta attraversando e di cui vuole avere il controllo. Ciò che lui cerca, come è tipico del mondo della comunicazione e di quello della vendita, è la nostra persuasione e adesione. È un incontro di menti, di immaginazione e di desiderio, come nei culti. Lo scontro (vedi la severità perentoria della frase dedicata a chi sospetta in lui «fini diversi dal bene comune») riguarda chi tenta di sottrarsi a questo incontro, che altrimenti sarebbe benevolo. Spiega la complessa armoniosità di ogni altra parte del discorso, che dice e contraddice. Ogni frase è una concessione bilanciata da un limite, ogni benevolenza è frenata da un ammonimento, ogni tolleranza dall’indicazione di un posto di blocco. L’uomo che sta parlando al Senato pone se stesso in un punto che sta al di fuori di un normale ufficio pubblico, al di sopra di noiosi limiti che infatti lo irritano quando deve occuparsene. Il fatto che qualcuno non stia al gioco gli sembra incredibile, oggettivamente odioso. Non ne fa una offesa personale. Lo giudica come un difetto grave di chi non vede. Per questo, a tratti il discorso è generoso. Non quando stronca la riforma della scuola, o quando evoca solennemente i punti sacri del suo contratto. Ma in tutte le altre frasi che puntano a un riscatto dei cespugli di miscredenti. Se diciamo del discorso al Senato che è ancora un discorso elettorale, è perché crediamo di averne colto il vero senso. La vita è comunicazione, la buona comunicazione persuade, la persuasione elimina e assorbe l’opposizione, e il programma (il miracolo) è fatto.
I discorsi che seguono (così simili a quelli che precedono) ce lo confermeranno.