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POLITICA 19-06-2001

IL VESTITO DEMOCRISTIANO DEL CAVALIERE

di MASSIMO GIANNINI

DOPO una campagna elettorale passata sulle barricate a gridare e a combattere contro i "comunisti", in molti si aspettavano che il nuovo presidente del Consiglio dicesse "qualcosa di destra" nel suo primo discorso programmatico al Senato. Non è andata così. Silvio Berlusconi non si è presentato al Parlamento come la versione italiana di Ronald Reagan o di Margaret Thatcher. Somiglia molto di più a Arnaldo Forlani.
Nel precedente battesimo davanti alle Camere, il 16 maggio del '94, il Cavaliere si presentò con un piglio liberista, e con l' entusiasmo naif di chi, per "cambiare l'Italia", era pronto a evocare Martin Luther King: "Ho fatto un sogno...", disse allora l'uomo di Arcore, in un emiciclo di Palazzo Madama che guardava a lui come a un oggetto misterioso ma nuovo. Oggi sul piano dei principi resta lo slogan: "Siamo qui per cambiare l' Italia...". Ma sul piano dei contenuti l'ingenuità velleitaria di 7 anni fa lascia il posto al piccolo cabotaggio, alla "politique d'abord", alla voglia di durare, di piacere e di non far male a nessuno. Dopo le urla dei mesi scorsi, un tocco di moderazione non guastava. Ma Berlusconi ha esagerato. Il suo discorso è troppo vago per essere un programma, è poco appassionato per essere un comizio. E' il messale del buon democristiano. Brevi cenni sull'universo, come disse una volta Andreotti, dopo un discorso di Moro.
C'è un aspetto positivo, in questa democristianizzazione del premier: il riconoscimento del ruolo dell'opposizione, che il Cavaliere ha fatto in apertura del suo intervento.

«Ci mettiamo volentieri alle spalle le polemiche di questi cinque anni...», si è spinto a dire il presidente del Consiglio. E' un passo avanti, per un leader che alla vigilia delle elezioni indicava nel 13 maggio la data storica del «ritorno della democrazia».
Ma a parte questo, il messaggio di Berlusconi è una fiera dell'ovvio. Sconta una gravissima lacuna, l'assenza totale del Mezzogiorno, a conferma di quanto pesi il «partito lombardo» dentro la coalizione. Ruota intorno a un fragilissimo perno «liberale», che esige «uno Stato non più arcigno controllore dei cittadini, ma difensore forte dei diritti e delle libertà». Ma non chiarisce come realizzarlo. Vagheggia «un Paese libero, prospero e giusto...». E chi non lo vorrebbe? Il problema è come arrivarci. Su questo il Cavaliere dice poco. Rafforza quell'immagine di trasformismo politico e di mimetismo culturale che aveva sfoderato già nell'ultima fase di campagna elettorale: da premier operaio a imprenditore d'Italia, da casalinga a commerciante, da sportivo a bracciante agricolo. Rimanda spesso alle clausole del suo «contratto con gli italiani», cioè ai punti essenziali del programma che il centrodestra ha lanciato negli ultimi giorni di campagna elettorale. Amplifica le parole di Ciampi, e ripete che la Repubblica progredisce nell'alternanza e che l'idea di patria è fondamentale, al di là delle varie partigianerie. Accontenta il suo ministro Ruggiero, professando «continuità» in politica estera, giurando che la sua è una maggioranza «intrinsecamente europeista» e rinnovando l'«amicizia indistruttibile con gli Stati Uniti». Raccoglie l'invito di Bono Vox, annunciando che l'Italia cancellerà il 100% dei debiti del Terzo Mondo. Tende una mano al popolo di Seattle in vista del G8 di Genova, promettendo durezza alle frange estremiste ma invitandole a riflettere sul fatto che «i temi che stanno a cuore ai contestatori sono gli stessi che stanno a cuore a noi».
Sul fronte dell'economia si concentrava l'attesa più grande, in vista del primo discorso del premier. Fisco, pensioni e flessibilità erano stati i cavalli di battaglia del Cavaliere prima del voto. Ma anche qui Berlusconi non aggiunge nulla di nuovo. La sua cautela si spiega in parte con la necessità di quantificare l'esatto buco nei conti ereditato dal governo di centrosinistra. Ma non è solo l'incertezza sulle quantità, a giustificare la prudenza fin troppo dorotea del Cavaliere. E' la qualità stessa del suo messaggio che appare volutamente nebulosa, e quindi neutrale. Conferma l'intenzione di ridurre la pressione tributaria, di abbattere l'aliquota marginale dell'Irpef a un terzo del reddito e di aumentare le pensioni minime fino a un milione. E si copre a destra, ma anche a sinistra. L'uomo di Arcore, traslocando a Palazzo Chigi, ricaccia nei cassetti le lezioni fiscali della scuola di Chicago. E se deve citare un modello, non è la curva di Laffer. E' addirittura quello che ha fatto grande in questo secolo la socialdemocrazia tedesca: «l'economia sociale di mercato», cioè «più libertà e più solidarietà».
Blandisce gli industriali, assicurandogli la prossima riedizione della legge Tremonti sulla detassazione degli utili reinvestiti e il condono per l'emersione dal lavoro sommerso. Ma tende una mano ai sindacati, promettendo riforme che «non ledono i diritti acquisiti di base», e che mantengono la «coesione sociale». Cita i moniti del governatore della Banca d'Italia Fazio sull'esigenza di tagliare la spesa corrente per garantire il recupero della competitività, ma si affretta a riaffermare il primato della politica dei redditi e a «garantire i benefici del sistema previdenziale, sanitario e assistenziale».
La sicurezza e la giustizia erano state le altre due bocche di fuoco dell'offensiva preelettorale berlusconiana. Anche in questo caso, il premier fa tacere i cannoni. Sparge camomilla, dopo aver inneggiato per mesi al «law and order». Dice che senza giustizia e sicurezza non esiste Stato degno di questo nome. Promette più fondi per la sicurezza dei cittadini, ma rifiuta l'idea di «uno Stato repressivo e autoritario». Loda i magistrati e ricorda Falcone e Borsellino (lo fece anche nel ‘94). Anche se rivendica l'autonomia di giudizio del Parlamento su queste materie, si impegna a non fare colpi di mano sull'indipendenza dei giudici, sulla separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante e sull'obbligatorietà dell'azione penale. Le crociate antigiustizialiste e i garantismi a senso unico del ‘94 sembrano lontani. Ma se è chiarissimo lo sguardo retrospettivo, il futuro non lo è affatto. Che vuole fare il governo di centrodestra per rendere le città più sicure e vivibili, e la giustizia più rapida e giusta?
Nelle parole di Berlusconi ci sono solo tre elementi di novità. Il primo è il presidenzialismo. Per bilanciare la spinta al federalismo, che il governo della Casa delle libertà è costretto a rilanciare per tenere a bada Bossi e i suoi giuramenti padani, il Cavaliere ripropone in agenda anche un «moderno presidenzialismo». La formula può accontentare Fini, alleato scontento per il troppo potere di interdizione attribuito alla Lega. Ma scontenta gli italiani, che nella vacuità delle parole del Cavaliere non capiscono di che presidenzialismo si parli.
La seconda novità riguarda la scuola. In questo caso, il Cavaliere dice finalmente due cose di destra. Dichiara la sua ferma volontà di far saltare con un decreto legge la riforma dei cicli delle elementari, che era stata varata dai governi ulivisti e che dovrebbe scattare a settembre. E poi propugna il modello della sussidiarietà tra scuola pubblica e privata, prefigurando una forzatura costituzionale che va ben oltre il principio della parità. La terza e ultima novità riguarda il conflitto di interessi. Il Cavaliere annuncia un suo disegno di legge per disciplinare la materia prima delle vacanze d'agosto. E' già qualcosa. Anche se poi, in un'estrema impennata alla Zelig, Berlusconi si trasforma nella moglie di Cesare. E pretende che nessuno sospetti l'assoluta, rigorosa ed esclusiva tensione al «bene comune» del suo impegno. Poco importa che sintetizzi le funzioni di primo ministro con quelle di padrone di un impero televisivo, di un colosso pubblicitario, di un gruppo assicurativo e di una squadra di calcio. Diciotto milioni di italiani l'hanno votato lo stesso. Il Cavaliere, mentre assume un impegno solenne, conferma la sua visione privatistica del potere. Non esistono regole che presiedono al corretto funzionamento della democrazia. Ma solo concessioni del principe.
Da oggi inizia in Parlamento il dibattito sulla fiducia. Il centrodestra ha una solida maggioranza. E di fronte a una base programmatica così debole, è anche difficile avviare una discussione approfondita e costruttiva. Resta da capire perché il Cavaliere abbia scelto di partire con un'offerta politica così modesta, in cui vende tutto e niente. Forse lo fa perché sotto la scorza dell'innovatore thatcheriano si nasconde il dna della vecchia consociazione democristiana. O forse vuole tenersi le mani libere, per intervenire più in là sulla carne viva del Paese. Nel frattempo nessuno, né a destra né a sinistra, sentiva il bisogno di un sosia di Forlani.

La Repubblica 19/6/2001