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CULTURA 19-06-2001

NEI ROMANZI NON NASCONO FIGLI

LE IDEE

di MILAN KUNDERA

E' STATO durante una recente rilettura di "Cent' anni di solitudine" che mi è venuta un'idea un po' bizzarra: i protagonisti dei grandi romanzi non hanno figli. Appena l'un per cento della popolazione non ha figli, ma almeno il cinquanta per cento dei personaggi romanzeschi abbandona il romanzo senza essersi riprodotto. Né Pantagruele, né Panurge, né Don Chisciotte hanno figli. Né Valmont, né Madame de Merteuil né la virtuosa Presidentessa del romanzo di Laclos.

Né Werther. E neppure i grandi personaggi di Stendhal: Julien Sorel, Fabrizio del Dongo, Lucien Leuwen, Lamiel, Armance; senza figli sono pure Rastignac, Lucien de Rubempré, Vautrin; così come i personaggi di Dostoevskij: Stavrógin, Myskin, Raskól'nikof, Kiríllof. E, naturalmente, l'Ulrich di Musil, ma anche sua sorella Agathe, e Diotima, e Clarisse e Walter, e il protagonista di Alla ricerca del tempo perduto, e i tre protagonisti della trilogia di Broch, e Sc'vèik, e tutti senza nessuna eccezione i personaggi di Gombrowicz e di Kafka, eccetto Karl Rossmann che ha un figlio da una serva, ma che, precisamente per sfuggire al proprio destino di padre, intraprende un viaggio in America, dando così vita al romanzo. Ci sono molti romanzi che terminano con un matrimonio, ma forse credo di avvicinarmi di più alla verità segreta dell'arte del romanzo se dico che essi finiscono prima che i protagonisti possano diventare genitori. Questa non fertilità non è dovuta all'intenzione cosciente dei romanzieri; è lo spirito del romanzo (o il suo subcosciente) che prova ripugnanza nei confronti della procreazione.
Il romanzo è nato con i Tempi Moderni, i quali hanno fatto dell'individuo il "fondamento di tutto". Nessun'altra arte si è concentrata a tal punto sull'individuo, sul suo carattere unico e inimitabile. Nella vita reale non sappiamo granché di com'erano i nostri genitori prima della nostra nascita; vediamo i nostri parenti venire e andarsene; appena scompaiono, il loro posto viene subito preso da qualcun altro: lungo défilé di esseri sostituibili. Solo il romanzo isola un individuo, lo illumina, lo rende insostituibile.
Don Chisciotte muore e il romanzo si chiude; questa fine è così perfettamente definitiva perché Don Chisciotte non ha figli; se ne avesse, la sua vita si prolungherebbe, sarebbe imitata o criticata, difesa o tradita; la morte di un padre lascia sempre una porta socchiusa; è, d'altra parte, ciò che ci sentiamo ripetere fin dall'infanzia: la tua vita continua nei tuoi figli; i figli sono la tua immortalità. Ma se la mia storia può continuare al di là della mia vita, ciò significa che questa mia vita non è un'entità in sé, indipendente, compiuta, in grado da sola di avere un senso, ciò significa che c'è qualcosa di assolutamente concreto e terreno che supera l'individuo, qualcosa in cui l'individuo si dissolve, qualcosa che gli consente di dissolversi, di dimenticarsi: la famiglia, i progenitori, la tribù, la nazione.
Con Cent'anni di solitudine l'arte del romanzo sembra scostarsi da una tradizione secolare; il centro dell'attenzione non è più un individuo, ma uno stuolo di individui; quest'ultimi non si considerano più come il "fondamento di tutto", il tempo dell'individualismo europeo non è il loro tempo; sono tutti originali, inimitabili, eppure ciascuno di loro non è che il lampo fugace di un raggio di sole sull'onda di un fiume; ognuno porta con sé il proprio oblio futuro e ne è consapevole; nessuno resta sulla scena del romanzo dall'inizio alla fine; la madre di tutta questa tribù, la vecchia Ursula, ha centovent'anni quando muore, e questo accade molto tempo prima che il romanzo giunga al suo epilogo; e tutti hanno dei nomi che si assomigliano: Arcadio José Buendía, José Arcadio, José Arcadio Secondo, Aureliano Buendía, Aureliano Secondo: perché alla fine i contorni che li distinguono sfumino, perché il lettore li confonda.
(Copyright Milan Kundera
Traduzione di Massimo Rizzante)
La Repubblica 19/6/2001